MUSEO CONTADINO DI CASSEGO

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Museo contadino di Cassego
Vallo - Lìvea - Baschetta
Stanga
Roncole ed attrezzi vari
Ramà


Tra le poche raccolte liguri sulla civiltà contadina un posto d'onore spetta senza dubbio al Museo Contadino di Cassego, frutto di anni di paziente raccolta e recupero delle tradizioni valdivarensi, progressivamente dimenticate dope il grande esodo dalle campagne degli anni '50. Nell'ambito della Val di Vara la cultura non è però cosi omogenea come potrebbe apparire: i centri di fondovalle, più aperti alle influenze esterne e al commercio, erano maggiormente inseriti nei circuiti culturali ed economici.

I piccoli centri di montagna invece praticavano un'economia di sussistenza e sviluppavano una cultura genuina, meno esposta a influenze diverse. In particolare la zona di montagna alle spalle di Varese Ligure, punteggiata di abitati antichi, presenta una cultura abbastanza uniforme espressa negli usi e costumi, negli attrezzi da lavoro, nel modo di vivere e nelle consuetudini della popolazione.

E’ proprio di questa cultura che il Museo di Cassego dà testimonianza. Ventidue anni fa, per iniziativa di don Sandro Lagomarsini, parroco di Cassego, prese avvio il lavoro di ricerca delle tradizioni orali, diligentemente fissate in interviste e filmati. Successivamente, dal 1971 al 1974, si è svolta la raccolta, famiglia per famiglia, delle testimonianze della vita contadina: si sono cosi recuperati attrezzi da lavoro, suppellettili, utensili destinati altrimenti ad andare perduti insieme a tutta una civiltà. Si è formata quindi una consistente collezione di materiale che ha consentito di aprire, nel 1975, una Esposizione Permanente, realizzata con la consulenza di docenti universitari quali la Prof. Rossi dell'Università di Salerno ed i Proff. Quaini e Moreno dell'Ateneo genovese. L'anno successivo, 1976, è stata pubblicata una guida alla raccolta, dal titolo "Progetto di Museo contadino". L'attività del Museo e continuata negli anni ed ha visto la realizzazione, nel 1982, di un filmato nel quale, con la collaborazione delle scuole elementari della zona, veniva visualizzato l'uso del materiale raccolto. E’ del 1983 la pubblicazione della prima parte della "Carta culturale dell'Alta Val di Vara", mentre sono in corso di preparazione la seconda parte della "Carta" e la catalogazione definitiva degli oggetti esposti.

Nelle stanze del Museo si allineano gli utensili relativi ai vari cicli di produzione. Per quello del latte: la stanga per portare l'acqua alle bestie e per il trasporto del latte; il ramà (paiolo di rame) per raccoglierlo; il cuin (colino) di legno d'ontano; le fascelle (forme); la cassa (mestolo); la conchetta di legno con la parte centrale sollevata per fare perdere il siero al formaggio; il torchio per pressare il formaggio stesso, che veniva fatto salare in vaschette di legno sulle ciappe di ardesia provenienti dal Monte Chiappozzo.

Le baghe (cioè gli otri di pelle di capretto) ed il torchio a stanga sono invece gli attrezzi del ciclo del vino, che in Alta Val di Vara si affiancava al sidro ottenuto schiacciando le mele in un tronco scavato.

Il ciclo del grano e documentato dalla corba (cesta per il letame portata a spalle o su una slitta detta lésa), dagli aratri in legno e da quelli con l'ala (voltorecchio). La battitura del grano avveniva col sistema della péiga: su della terra battuta con la verga si metteva il letame diluito con acqua, che permetteva di battere solo sulle spighe senza danneggiare la paglia, utile a coprire le case e le cascine.

Con la farina si confezionava il pane "fatto in casa": la mésa (madia) serviva come ripiano su cui impastare; la pasta veniva poi lasciata su una grande livéa a lievitare, coperta da una conchetta che impediva al pane di debordare. Il tutto era poi cotto sotto il testo, una campana di terracotta (in tempi più recenti di ghisa) scaldata sulla piastra del focolare, detto .

Nel Museo di Cassego sono testimoniate tutte queste fasi, come pure quelle del ciclo della méga, la meliga ossia il mais (un alimento di largo consumo dalle nostre parti, importato dall'America), a cominciare dal metodo di semina: con un rastrellone si tracciavano sul campo arato le linee da seguire nella semina stessa, si scavavano alcuni fori entro i quali erano introdotti i chicchi. Per praticare il piccolo scavo si usava una zappetta (zappella), che alla fine di ogni stagione di lavori occorreva restaurare saldando i pezzi rotti.

Con la mega si faceva la polenta nel recipiente detto bronzo (di rame, bronzo o ghisa), posandola poi sulla livea rettangolare e raccogliendola a mucchio con la paletta. Alla base dell'alimentazione della popolazione dell'Alta Valle, insieme alla farina di granturco, c'era quella di castagne da cui si originano molti piatti tipici della zona: gli gnocchi da condire con la ricotta; la farina (impasto di farina ricoperto da ricotta) ed il castagnaccio cotto sotto il testo; le chissöe, focaccette da preparare a mo' di testaroli; il pan martin, una mescolanza di farina di grano e farina di castagna; le pelate col latte.

Ma come si ottiene la gustosa farina di castagne? Le castagne, raccolte con molle, rastrellina, cavagno e corba, venivano trasportate in un sacchetto di canapa (sacchella) portato in cintola e sostenuto da un bastone avvolto per due tre giri al sacco, lo stesso raccoglitore utilizzato per le olive. Le castagne erano poi seccate s ull'essiccatoio (gràia), una grata situata proprio sopra la cucina cosi da poterne ricevere il caldo del focolare; dopodiché venivano battute con un procedimento rudimentale ma efficace. In un sacco di canapa si stipavano una ventina di chili di castagne; due persone, tenendo il sacco agli angoli, lo battevano sul ceppo in modo tale che i colpi le sbucciassero. Quindi con il vallo era tolta la buccia, col setaccio (crevello) venivano invece eliminati i frammenti spezzati; il resto era versato in un mezzo tronco di castagno incavato (sernàgioia) dove avveniva la divisione tra le castagne da cui ricavare la farina e quelle per il farinaccio dei maiali, entrambe conservate in una cassapanca (bancà) a due scomparti.

Nel Museo non mancano neppure gli attrezzi tipici del ciclo della canapa: la gràmola per spezzarla, il maìscio (macero), la scarlazza, il pettine per cardarla. Un tempo si faceva largo uso di questa fibra per indumenti: il prodotto più tipico del varesino è la mezzalana, un tessuto a trama di canapa e ordito di lana di pecora nera, usato per giacconi, calzoni e capi pesanti. E' interessante il materiale della bottega artigiana, come anche gli oggetti sparsi, i più disparati: la rastrellina per i mirtilli, il legno con i "denti" di chiodi; il portasale in legno; la fiocina per pescare; i collari per bovini ed ovini. Infine tutto il corredo di una cucina rustica: il fornello mobile (tanùn); l'essiccatoio (gràia) per castagne e granoturco; il testo per il pane; il mestolo (cassa) per attingere l'acqua alla conca; la mastra coi cassetti per la farina e la soprastante mésa per impastare.


Fonte : "Cara Spezia" - Il Secolo XIX

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