SPROGORA

Da wikiSpedia.

All’epoca degli immortali il gran dio Oceáno, re delle terre della Luna, decise di rendere più belli i suoi possedimenti donando loro tanta buona acqua fresca, dolce e dissetante. Fu anche per questo che quelle lande prima deserte, rapidamente si abitarono di gente che veniva da ogni parte del grande lago fra le terre, richiamata da tutta quell’acqua a loro disposizione. Potevano prenderla come e quanta ne volevano, né vi era limite alcuno al suo uso. L’unica proibizione era per la fonte che sprizzava nella località di Spedia, la cui sorgiva era dimora della figlia prediletta di Oceáno che aveva vietato che si toccasse la sua acqua pura e cristallina. Gli abitanti, che mai avevano infranto il divieto, non si stancavano di ammirarla mentre sgorgava dalla roccia con una voce che ammaliava: sss …pr. Così pian piano avevano preso a chiamarla Sprogora proprio per il suono che produceva. Se anche poi avessero voluto abbeverarsi lì, non avrebbero potuto. Il gran dio, infatti, aveva deciso che si sarebbe potuta raccogliere quell’acqua solo con recipienti cuciti dai piedi dei figli dei sassi con i fili del mare. L’oscuro arcano non era mai stato svelato e la fonte era rimasta vergine e se qualcuno, blasfemo incurante del divieto o solo assetato ignaro, aveva tentato di coglierne stilla nella coppa delle mani, quelle ritraeva asciutte. Sprogora aveva continuato a zampillare fresca, formando uno specchio d’acqua piccolo, ma tanto bello: quasi una piccola corte cui salici e erbe palustri facevano corona e cigni e folaghe erano altrettanti paggi e damigelle d’onore della bella principessa. Un giorno arrivò dalle lontane Cicladi un giovane dal capello corvino come l’occhio. Esule dalla patria, vagabondo nel grande lago fra le terre per cercare nuova sede, il grande golfo della Luna gli piacque subito. Si fermò non distante da Spedia, in un’ansa protetta della costa posta al tramonto e sulla sua barca cominciò a girare le località per vedere che cosa gli era offerto oltre al mare pescoso. Trovò boschi ricchi di legna, prati da coltivare, terrazze erte ma su cui come serpe si attorcigliava il legno nodoso della vite. Soddisfatto capitò infine davanti al laghetto di Spedia e lì, stanco per il lungo cammino, si assopì. Sprogora dal fondo del suo piccolo regno incantato, scorse le sue belle labbra riarse dal sole e dal sale e decise di baciarle a costo di infrangere il volere del padre. Una goccia luminosa zampillò più in alto, ricadde su una foglia di ninfea, poi su un ramo di salice che lo rimbalzò sullo stelo di un narciso. Da qui cadde sulle labbra del giovane che però non si dissetò. Forse assonnato non se ne rese conto o forse così volle la sorte, ma fatto fu che l’uomo dal capello corvino non assaporò il succo prezioso che gli veniva offerto, ma schiuse appena le labbra per appoggiarle su quella goccia piena di umore che gli cadeva dall’alto. Fu così bacio che ruppe l’incantesimo che voleva che i mortali non potessero vedere le divinità delle acque. Sprogora, nascosta nella stilla, gli si manifestò nel fulgore della sua splendente bellezza. “Sono Sprogora, figlia del gran dio Oceáno, signora di quest’acqua. Tu chi sei?” Il giovane non rispose, ma, per nulla intimidito, le tese una mano e la volle accanto a sé. Nella notte, quando la luce della luna era l’unico manto che li copriva dal fresco notturno, Sprogora, stretta al capello corvino dell’amato, sussurrò al suo orecchio quanto non avrebbe dovuto svelare. Al risveglio il giovane trovò unico segno della presenza della bella dea, solo il lenzuolo d’erba che le membra armoniose avevano sprimacciato. Oceáno infatti, subito intervenuto, aveva condannato la figlia, quantunque la prediletta, a mai più rivedere il mortale al cui orecchio aveva svelato il gran mistero. Ma, mentre Sprogora piangeva lacrime che aumentavano ancor più il suo laghetto, il giovane, ben ricordando quanto gli era stato sussurrato, era tornato di corsa nella sua casa nella costa al tramonto per dirigersi subito verso la spiaggia. Con un ramo ricurvo cominciò a scalzare i sassi facendone venire fuori i tanti figli dai molti piedi che vi si nascondevano sotto. Ne afferrava le estremità con le mani nude e subito li fissava alla vela della barca come aveva imparato nelle lontane isole natie. Esposti al sole, i polpi indurivano la pelle. Il giovane la tastava e quando vide che era diventata ormai resistente, trasse giù dalla vela i figli dei sassi disponendoli sulla sabbia accanto a sé. Aveva in mano un bastoncino appuntito costruito con la costola dell’osso di una seppia e che aveva bucato in fondo. Per quella cruna fece passare un refe verde ottenuto tessendo i tanti fili delle alghe che aveva estirpato dal fondo del mare. Ebbe così in breve tempo un recipiente capace e resistente che non avrebbe perso neppure una stilla del liquido che vi avesse messo dentro. Con quell’otre salì sulla barca per dirigersi verso il laghetto di Spedia. Qua colmò subito lo strano vaso: lo appoggiò con la bocca verso la corrente e chiamò Sprogora, l’amata. A sentirne la voce la principessa, che ancor prima di svelargli il segreto sapeva quale sarebbe stata la punizione del padre, si mise a piangere perché non poteva più stare fra le sua braccia e con le lacrime riempì il sacco. Subito il giovane fece ritorno verso casa. Tuttavia, seguendo le parole dell’amata, non sbarcò a terra, ma rimase in mare, davanti alla sua piccola abitazione, fino a che non vide una grande nave entrare nel golfo della Luna dalla parte aperta del grande lago fra le terre, avendo superato l’isola delle caverne. A quella nave il giovane si accostò e offri l’acqua dolce ricevendo oro. Quello era stato il regalo che Sprogora gli aveva fatto. Sapeva che una notte sola sarebbe potuta essere sua, che il padre non gliel’ avrebbe fatto più rivedere. Farlo attingere alla sua fonte era l’unico modo per incontrarlo; facendogli vendere la sua acqua gli dava ricchezza. Così il giovane dal capello corvino continuò ad andare a attingere alla fonte di Sprogora che, per il dolore di non poterlo più toccare, versava lacrime che riempivano lo strano otre di acqua che vendeva ai tanti legni che passavano, La gente del posto quel giovane lo chiamò Kados, che nella lingua delle Cicladi vuol dire anfora, e Kadoumar, il mare dell’uomo dell’anfora, divenne per tutti quel tratto di acqua salata dove stava la barca di Kados che vendeva il dolce liquido fra l’onda salsa. Kados sempre più spesso andava a trovare l’amata che, al vederlo, piangeva sempre più. Le continue lacrime commossero Luna che intercesse per lei presso Oceáno che alfine permise che i due si ritrovassero. “Quando, gran dio?” chiese Luna. “Non subito. La colpa è stata grande e ancora ne va pagato il fio.” “Fino a che venga l’epoca dei mortali?” azzardò timorosa Luna ben conscia che anche agli eterni era imposto di conoscere il crepuscolo. “No, troppo presto. Aspetteranno per ricongiungersi che sia l’epoca delle macchine.” “Così tanto!” “Grande fu il peccato. Quando poi di nuovo respireranno insieme, lo faranno lontano dalla vista dei viventi: che ne perdano la memoria e dimentichino che si può profanare il volere di Oceáno”. Sprogora però fu felice a sentire quelle parole, anche se l’attesa sarebbe stata lunga. Non importava: alfine avrebbe riavuto il suo uomo dalla chioma corvina. Che di loro nessuno più avrebbe saputo, a lei non interessava nulla. All’amore per vivere non serve la fama, neppure il contatto è indispensabile: è sufficiente la speranza d ritrovarsi.

Era stata famosa nel tempo una sorgiva d’acqua dolce che sgorgava fra le onde del mare davanti a Cadimare. Veine d’eau douce la chiamano le carte napoleoniche; Il Lago una italiana del Settecento. Gli studiosi del tempo si intestardirono per scoprirne l’origine, ma nulla trovarono. Uno di loro ipotizzò che ad alimentarla attraverso canali sotterranei, fosse il laghetto della Sprugola che tanti chiamavano Sprogora e che era dietro all’attuale piazza del mercato. I rivolgimenti causati dalla costruzione dell’Arsenale militare, una ventina d’anni dopo l’inaugurazione dello stabilimento, fecero sparire all’improvviso quello strano fenomeno, si ignora ancora il perché. Oggi ben pochi ricordano quel getto d’acqua una volta tanto famoso in ogni dove del Mediterraneo, che dissetava i marinai venuti nel golfo della Spezia. Questa favola è per ricordare con un mito inventato oggi, una realtà importante di un passato che non è poi così remoto come si potrebbe credere.


Autore: Alberto Scaramuccia

Strumenti personali