ORTOGRAFIA DEL DIALETTO SPEZZINO

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L'ortografia del dialetto spezzino utilizzata in questo sito, che è poi quella definita e proposta da Piergiorgio Cavallini ed Eugenio Giovando nell'Antologia del dialetto spezzino adotta un approccio cautelare, cioè quello di non rompere eccessivamente, da un lato, con la tradizione locale e, dall'altro, di mantenere intatta la struttura di base dell'ortografia dell'italiano, nota a chiunque desìderi leggere e capire l'opera. La base ortografica è stata pertanto presa in blocco dall'italiano: quindi l'uso dell'h ad indicare il suono velare dell'e e dell'i dopo c e g, quindi l'uso degli apostrofi ad indicare la caduta di vocali, il raro uso della q là dove se l'aspetta chi abbia familiarità con l'ortografia italiana. Ovviamente, per quanto riguarda i testi riportati integralmente, valgono le regole ed i sistemi adottati dai singoli autori.

1 Regole generali

L'apostrofo viene utilizzato per indicare le cadute (elisioni ed aferesi) effettive di vocali. L'unica concessione all'occhio abituato all'italiano si può eventualmente fare con gli articoli maschile e femminile singolare l davanti a vocale, che si possono trascrivere apostrofati anche se in realtà non si dànno occorrenze d'articolo *lo e *la (gli articoli, infatti, sono (e)r, o, l per il maschile e a, l per il femminile, trascritti rispettivamente er, 'r, o, l' e a, l', per cui non vi è alcuna caduta da indicare con l'apostrofo. Lo stesso problema e le stesse scelte valgono per le preposizioni articolate. In ogni caso, chiunque adotterà il presente sistema di trascrizione potrà, purché coerentemente, decidere di utilizzare p meno l'apostrofo in questi casi. In tutti gli altri casi si apostrofa là dove cade la vocale. Per quanto riguarda il pronome oggetto maschile e femminile, a parte la forma enclitica del tipo mangialo, mangiala = "mangiarlo, mangiarla" (se fosse "mangialo, mangiala" sarebbe nel nostro sistema màngialo, màngiala), la forma proclitica maschile è l(o) oppure (e)r, mentre quella femminile è l(a), per cui si scrive: a 'o sò, a 'r vòi; a n' 'o sò, a n'er vòi; a l'ho visto; a 'a sò, a ne la sò; la l'ha vista. Lo stesso dicasi per il pronome soggetto atono femminile singolare, che si comporta così: le l'è, le la diza. Va precisato che si tratta comunque d'un artifizio ortografico destinato a facilitare la comprensione o la redazione del testo, ma non d'una situazione ogget-tiva, perché ai fini della trascrizione fonetica non occorre indicare che una determinata vocale è caduta, tanto più che non è logicamente possibile in molti casi dire quale sia caduta. Quando, infatti, come nel caso della preposizione articolata, ad es. der (vedere più avanti), s'è avuto l'incontro tra de e er, in realtà s'è formato il morfema der, che così trascriviamo. La stessa cosa succede ad esempio quando s'incontrano le vocali o e a in quando a éimo, che diventa quand'a éimo: in realtà - ed è qui l'artifizio - la parola diventa quanda, e così si noterebbe in trascrizione fonetica. Comunque, per uniformare, e per tutta una serie di valutazioni di tipo soprattutto comparativo od empirico, si preferisce, negl'incontri di vocali, considerare eliso l'elemento terminale della prima piuttosto che considerare colpito da aferesi l'elemento iniziale della seconda. Legato al problema dell'apostrofo è quello - annoso - delle preposizioni articolate nello spezzino. Sulla base di quanto esposto, la serie è la seguente (la forma dopo la barra è da considerare variante ammessa): de: der, do, del/del'; da/dea, del/del'; di; de/dee; a: ar, ao, al/al'; aa, al/al'; ai; ae; da: dar, dao, dal/dal'; daa, dal/dal'; dai; dae; con: cor, coo; con l/con l'; coa, con l/con l'; coi; coe. Le preposizioni per, ente, sorve non hanno forme articolate, per cui la serie è: pe' 'r, pe' o, pe' l/pe' l'; pe' a, pe' l/pe' l'; pe' i/pe' e; (e)nt'er, (e)nt'o, (e)nte l/(e)nte l'; (e)nte l/(e)nte l'; (e)nt'i; (e)nt'e. sorve ar, sorve ao, sorve a'/sorve al'; sorve aa, sorve al/sorve al'; sorve ai; sorve ae. Una breve parentesi per dire della famosa questione dell'articolo determinativo maschile singolare, der/do: d'altro non si tratta se non del trattamento della l- preconsonantica, i cui esiti sono diffusi in una zona ben più ampia della città della Spezia. La consonante liquida, a seconda della consonante che la segue, si velarizza o si rotacizza. La cosa passa, per così dire, inosservata all'interno di parola (carmo/àoto), ma viene a porre qualche problema quando l'incontro avviene per motivi fonosintattici, ed è il caso non solo dell'articolo, ma anche delle parole che, perdendo per troncamento l'ultima vocale, lasciano esposta una -l finale che può divenire preconsonantica, che va a subire gli stessi esiti che subisce all'interno di parola (der/do - mar/mao - bèr/bèo). Es: der can/do dido - mar cascà/mao de denti - bèr palàssio/bèo so. Un'altra breve nota a proposito di dea/da - argomento ch'è stato oggetto di vigorose polemiche a livello locale - si noti che non si tratta d'un problema ortografico (il problema ortografico, se esiste, è tra dea/de a/de 'a da una parte e tra da/d'a/d' 'a dall'altra): qui si tratta d'una duplice attestazione di forme, si tratta cioè di stabilire se, in spezzino, "della" si dica dea o da! Personalmente, a livello di parlanti, anche in zone limitrofe, ho sempre trovato attestata la seconda forma. La prima mi pare più di derivazione dotta e letteraria, per cui direi che nel patrimonio lessicale dello spezzino esistono entrambe le forme, e ciascuno adotterà quella che preferisce. Voglio però solo far notare l'incoerenza di chi sostiene l'uso dell'espressione "della Spezia" e contemporaneamente propugna l'adozione della forma dialettale de 'a Spèza, che corrispondente sic et simpliciter a "di La Spezia"! L'accento (acuto ´, grave `), ha un duplice impiego: 1) Viene utilizzato l'accento grave con valore d'accento grafico, per indicare il grado d'apertura delle e e delle o toniche nelle parole parossitone (o piane, quelle, cioè, con l'accento sulla penultima sillaba). Il grado delle e e delle o atone nel dialetto spezzino - come in quasi tutti i dialetti italiani - è sempre chiuso. 2) Vengono utilizzati gli accenti acuto e grave con valore d'accento tonico nelle parole proparossitone (o sdrucciole, quelle, cioè, con l'accento sulla terzultima sillaba) e ossitone (o tronche, quelle, cioè, con l'accento sull'ultima sillaba), tranne quelle terminanti in n. Si segna l'accento tonico su qualsiasi vocale (se si tratta di e e di o, si distingue ovviamente tra vocale aperta e vocale chiusa) anche quando nella parola ricorre una ü atona ed anche sulla i tonica che segue immediatamente la c e la g (es. encìe, magìa) (vedere più avanti per il trattamento di queste due consonanti). 3) S'è deciso di non notare l'accento con valore d'accento grafico per distinguere monosillabi e parole omografe/omofone, semplicemente perché le forme possibili sono più numerose, in alcuni casi, delle variabili grafiche consentite dagli accenti a disposizione, a meno di non ricorrere a macchinosi artifizî. Sarà quindi il contesto a chiarire la forma: es. aa = "alla", "ala", "àia"; me = "io", "me", "mio", "mia", "miei", "mie", "miele". Come si vede, avremmo potuto anche scrivere àa per "alla", ma "ala" ed "àia" non si sarebbero comunque distinte visivamente; peggio ancora per me, e i casi come questi sono numerosissimi. In altre parole: a) L'accento grafico si segna sulla sede diversa dalla penultima; b) Sulla penultima sillaba si segna l'accento grave solamente per indicare il suono aperto della e e della o (quindi, quando nella penultima sillaba figurano una e od una o non accentate significa che hanno suono chiuso); c) Si segna l'accento su qualsiasi sillaba quando nella parola è presente una ü atona e sulla i tonica che segue immediatamente una c ed una g palatali; d) In pratica, la filosofia ispiratrice è quella di utilizzare il minor numero d'accenti possibile, riducendo così le possibilità d'errori di trascrizione e, nel contempo, facilitando la lettura. Dittonghi e trittonghi Nella valutazione del numero di sillabe d'una parola, per decidere se accentare o meno la tonica, si deve fare attenzione a non farsi fuorviare dalle (false) analogie con l'italiano, nel senso che molti degl'incontri vocalici che avvengono nel dialetto spezzino si producono in séguito a dileguo (caduta) delle consonanti intervocaliche (soprattutto l ed r). In molti dei casi in cui si presentano due vocali contigue che in italiano costituirebbero dittongo si tratta, in realtà, nel dialetto spezzino, di due sillabe distinte, con tutte le conseguenze del caso per l'accentazione. In pratica, per semplificare, nel nostro sistema basta contare fisicamente le vocali e considerarle ad abundantiam tutte sillabe (tranne la i che segue la c e la g e tranne la u che segue la q, che vocali - comunque - non sono). Come detto, nei rari casi in cui la i che segue una c o un g è vocale, reca l'accento. ¨ La dieresi serve ad indicare il suono velare, o palatale (la cosiddetta "u turbata" o "u francese") della u, e si segna anche sulle sillabe atone. Quando la u velare non è in sede tonica, si segna l'accento tonico sulla parola (es. pümàsso, fügàssa, rümóe. - Il trattino viene utilizzato per lo spezzino in un unico caso: per indicare la pronunzia della s sorda seguìta dalla c palatale nel nesso s-c (es. mes-ciüa). 2 Elenco completo delle lettere e dei simboli utilizzati, con il relativo commento ed alcuni esempî 2.1 Vocali a a atona; a tonica nelle parole parossitone (o piane, cioè con accento tonico sulla penultima sillaba); a tonica nelle parole ossitone (o tronche, cioè con accento sull'ultima) terminanti in n. Si pronunzia come in italiano. Esempî: mae, can, dòna. Attenzione: ca (non cà). à a tonica nelle parole proparossitone (o sdrucciole, cioè accentate sulla terzultima sillaba); a tonica nelle parole ossitone (o tronche, cioè accentate sull'ultima) terminanti in vocale; a tonica in qualsiasi sede quando è presente nella parola una ü atona. Si pronunzia come in italiano. Esempî: dàmelo, mià, fügàssa. e e atona; e tonica chiusa nelle parole parossitone (o piane, cioè con accento tonico sulla penultima sillaba); e tonica chiusa nelle parole ossitone (o tronche, cioè con accento sull'ultima) terminanti in n. Si pronunzia come la e dell'italiano "rete". Nei dialetti della Serra e di Pugliola la e dell'articolo femminile plurale, soprattutto nelle preposizioni articolate, tende ad i. Esempî: fenie, defeensa, semo, ben. é e tonica chiusa nelle parole proparossitone (o sdrucciole, cioè accentate sulla terzultima sillaba); e tonica chiusa nelle parole ossitone (o tronche, cioè accentate sull'ultima) terminanti in vocale; e tonica chiusa in qualsiasi sede quando è presente nella parola una ü atona. Si pronunzia come la e dell'italiano "rete". Esempî: disémelo, perché, brüzàe. è e tonica aperta in tutte le sedi toniche. Si pronunzia come l'italiano "bello". Esempî: è, bèo, belighè, sèrnemelo (ma sernémelo). i i atona; i tonica nelle parole parossitone (o piane, cioè con accento tonico sulla penultima sillaba); i tonica nelle parole ossitone (o tronche, cioè con accento sull'ultima) terminanti in n; Si pronunzia come in italiano. Attenzione alla i che segue la c e la g; non è una vocale, ma un artifizio grafico che serve esclusivamente per indicare che la consonante precedente è palatale (tranne quando la i è tonica). Esempî: fis-ciae, fenie, fantin; gianda, giümèlo ma encìe, magìa. ì i tonica nelle parole proparossitone (o sdrucciole, cioè accentate sulla terzultima sillaba); i tonica nelle parole ossitone (o tronche, cioè accentate sull'ultima) terminanti in vocale; i tonica chiusa in qualsiasi sede quando è presente nella parola una ü atona. Si pronunzia come in italiano. La i tonica che segue la c e la g palatali, diversamente da quanto detto sopra, è una vera e propria vocale, non un artifizio grafico che serve esclusivamente per indicare che la consonante precedente è palatale, pertanto va accentata. Esempî: dìmelo, arensenì, lüìzi; encìe, magìa (accentata, altrimenti si leggerebbe *énce e màgia). o o atona; o tonica chiusa nelle parole parossitone (o piane, cioè con accento tonico sulla penultima sillaba); o tonica chiusa nelle parole ossitone (o tronche, cioè con accento sull'ultima) terminanti in n. Si pronunzia come la o dell'italiano "come". Esempî: portae, mondo, fanfaron. ó o tonica chiusa nelle parole proparossitone (o sdrucciole, cioè accentate sulla terzultima sillaba); o tonica chiusa nelle parole ossitone (o tronche, cioè accentate sull'ultima) terminanti in vocale; o tonica chiusa in qualsiasi sede quando è presente nella parola una ü atona. Si pronunzia come la e dell'italiano "come". Esempî: cóntamelo, bersó, rümóe. ò o tonica aperta in tutte le sedi toniche. Si pronunzia come l'italiano "modo". Esempî: mòa, tegò. Per per la 1a s. del v. essere si può o meno utilizzare l'h come in italiano (ho, anziché ò). ü ü velare atona (quando compare nella parola una ü velare atona la sillaba tonica è comunque accentata) ü velare tonica (corrispondente in larga misura alla u dell'italiano) Esempî: fügàssa, lüìzi, rümóe per la ü atona; ciü, müo, fürmene per la ü tonica. Attenzione: non esistono nel dialetto spezzino i suoni (e di conseguenza i segni) u/ù. Alla u atona italiana corrisponde in genere o. Si trova una u grafica dopo la q. Foneticamente non si tratta d'una vocale ma d'una semivocale (w). Si deve considerare ipercorrettismo e vezzo grafico (errore) l'uso della o dopo la q (sqoasi). 2.2 Consonanti b suono della b come in italiano. Davanti a b e p si ha sempre n (contrariamente alla regola dell'italiano): anbo, conbinae. c suono della c come in italiano, gutturale (velare, comunemente detto "duro") davanti alle vocali a, o ed ü atone e toniche (italiano "casa", "cosa", "culla"), e palatale (comunemente detto "dolce") davanti alle vocali e ed i (atone e toniche) (italiano "cento", "ciglio"). Come in italiano, per indicare il suono palatale della c davanti ad una vocale velare (a, o ed ü), alla c si aggiunge una i grafica (attenzione, questo aspetto è importante per il computo delle sillabe: la i che segue la c palatale davanti ad a, o ed ü non è una vocale, ma fa parte della consonante che la precede, tranne il caso in cui si tratta di i tonica, come in encìe, che si accenta). Questo trattamento è omologo a quello della g (vedere più avanti). Esempî di suono velare: cao, còo, cüo. Esempî di suono palatale: cen, cigae, ciamae, ciongio, ciüma; encìe. ch suono velare (duro) della c come in italiano davanti alle vocali e i (italiano "che", "chi"). Per comodità di lettura, in séguito a cadute di vocali per motivi fonosintattici si mantiene la notazione della h. Questo trattamento è omologo a quello della g (vedere più avanti). Esempî: chèe, chi, chì, ch'i. d suono della d come in italiano. f suono della f come in italiano. g suono della g come in italiano, gutturale (velare, comunemente detto "duro") davanti alle vocali a, o ed ü atone e toniche (italiano "gatto", "gola", "gusto") e palatale (comunemente detto "dolce") davanti alle vocali e ed i atone e toniche (italiano "gente", "giglio"). Come in italiano, per indicare il suono palatale della g davanti ad una vocale velare (a, o ed ü), alla c si aggiunge una i grafica (attenzione, questo aspetto è importante per il computo delle sillabe: la i che segue la c palatale davanti ad a, o ed ü non è una vocale, ma fa parte della consonante che la precede). Questo trattamento è omologo a quello della c (vedere più sopra). Esempî di suono velare: gato, gòto, agüsso. Esempî di suono palatale: gente, agi, gianda, mangio, agiüto. gh suono velare ("duro") della g come in italiano davanti alle vocali e ed i atone e toniche (italiano "ghetto", "ghiro"). Per comodità di lettura, in séguito a cadute di vocali per motivi fonosintattici si mantiene la notazione della h. Questo trattamento è omologo a quello della g (vedere più sopra). Esempî: ghèla, faghi, gh'ea. h artifizio grafico utilizzato nei nessi ch e gh per indicare il suono velare della c e della g. Si utilizza anche nelle forme del verbo essere che hanno l'h in italiano. l suono della l come in italiano. Si noti che la l intervocalica dilegua quasi sempre in spezzino, dando luogo a numerosissimi incontri di vocali che non sono dittonghi/trittonghi. È presente la l intervocalica quale esito dello scempiamento della geminata ll (es. cavalo). Comportamento analogo a quello della r intervocalica (q.v.). gl suono palatale come in italiano, seguìto dalle vocali e ed i. La realizzazione in spezzino è piuttosto rara, in quando l'esito normale del nesso mediolatino è g palatale (trascritta gi, vedi sopra), mentre un altro esito, pure esso raro, è li. Esempî: m suono della m come in italiano. n suono alveo-dentale della nasale n come in italiano. Nell'inventario fonologico del dialetto spezzino esiste anche la n velare (come in can, vende); presentandosi questo suono solamente in posizione finale e preconsonantica, non è necessario indicarlo con un segno apposito (come fa invece per i dialetti di area genovese, che hanno il suono anche in posizione intervocalica lan-a). gn suono palatale della nasale (italiano "gnomo"). Esempîo gnèco. Spesso, però, al posto del suono gn troviamo il semplice suono n (es. nèco). p suono della p come in italiano. . Davanti a b e p si ha sempre n (contrariamente alla regola dell'italiano): senpre, tenpo. q suono della q come in italiano, di rara occorrenza in spezzino. Abbiamo mantenuto il segno dove di solito si trova in italiano, anche se non sarebbe errato trascrivere il suono con la c. Vedasi quando detto prima a proposito della u. Esempî: quando, squasi. r suono della r come in italiano. Si noti che la r intervocalica dilegua quasi sempre in spezzino, dando luogo a numerosissimi incontri di vocali in iato (vocali, cioè, che non costituiscono dittonghi/trittonghi. È presente la r intervocalica quale esito dello scempiamento della geminata rr (es. caro = "carro" ma cao = "caro"). Comportamento analogo a quello della l intervocalica (q.v.). Non esistono nel dialetto spezzino suoni della r di tipo cacuminale, velare etc. (presenti in zone limitrofe). s/z/ss suono della s sorda (detta anche "aspra") come in italiano (italiano "sale") e della s sonora (detta anche "dolce"). Si noti che non esiste in spezzino il suono della s palatale, reso in italiano dai trigrammi sci sce, cui corrisponde nel dialetto spezzino la semplice s sorda (es. fassa). Quello della trascrizione delle spiranti è uno dei problemi ortografici più annosi e sofferti dello spezzino, per via - da un lato - della presenza della tradizione ortografica legata soprattutto al toponimo Spèza e - dall'altro - per la confluenza nel suono s degli esiti di altri nessi consonantici. In altre parole, troviamo nello spezzino la s sonora anche là dove in italiano troviamo la g palatale o la z sonora, mentre d'altro canto non esistono nello spezzino i suoni della z sorda e sonora. Vediamo di esaminare le diverse soluzioni possibili. 1a ipotesi: Se adottassimo la regola (peraltro mai rispettata dai sistemi ortografici ufficiali, per via delle soggezioni etimologiche e dell'uso) che ad ogni suono deve corrispondere uno ed un solo segno, ci basterebbe scegliere un segno plausibile (ad esempîo ṡ o  per la sonora e la semplice s per la sorda; non avremmo neppure bisogno di raddoppiare la s per indicare - come invece facciamo - il suono sordo della s intervocalica per distinguerlo dalla corrispondente s sonora). Ciò comporta però dei problemi, soprattutto a livello di scritturazioni in proprio o presso tipografi non attrezzati, ed a livello di resistenze tradizionali (scrivere Spèṡa o Spèa potrebbe dare fastidio a molti che, non vedendo il familiare Spèza, penserebbero di essere finiti da un'altra parte!). Scartata dunque questa prima (e scientificamente più corretta) ipotesi, veniamo alle altre. 2a ipotesi: Dato che in spezzino non esiste il suono z (sorda e sonora: per intenderci, non esistono i suoni dell'italiano "zozzo" e "zanzara") potremmo utilizzare la z per tutte le s sonore e la s per tutte le s sorde. Sarebbe un buon sistema, coerente e rispettoso della norma che imporrebbe l'uso dello stesso segno per lo stesso suono. Ci troveremmo però a scrivere nazo per naso, cazo per caso (!), meze per mese e via discorrendo. E d'altro canto, la celebre parola mossa diverrebbe mosa (e chi mai la leggerebbe correttamente?). Non solo si oppone qui la resistenza della tradizione, ma anche quella del buon gusto. Allora, dobbiamo cercare una 3a soluzione. 3a ipotesi: il compromesso. A questo punto non resta che seguire la tradizione e razionalizzarla quanto basta. Il risultato - e la regola, per chi la vuol seguire - è il seguente: per la s sonora si utilizzano due segni, la s e la z, a seconda della provenienza del suono; mentre per la s sorda si utilizza il segno s (ss se intervocalico). Per quanto riguarda la s- preconsonantica, essa è sorda o sonora - come in italiano - di fronte a consonanti ben precise: s- sorda: sc sf sq sp st; s- sonora sb sd sg sl sm sn sr sv. A proposito dell'uso della doppia s per la s sorda intervocalica, si dovrà tener presente che non si tratta d'una doppia come in italiano, ma soltanto d'un artifizio grafico per distinguere il suono della s sorda intervocalica da quello della s sonora nella medesima posizione. In particolare ciò vale per la s sorda intervocalica postonica corrispondente ad una s in italiano, come in speciàndosse, per il qual caso questa grafia sembra – ed è in parte – assurda: a parte la rarità e letterarietà della forma, se scrivessimo speciàndose con una s sola dovremmo leggere questa s come sonora. A questo punto, o si precisa che la s semplice intervocalica postonica vale come sorda quando corrispondente ad s in italiano, o ci teniamo la bruttura della geminata con puro valore grafico e non fonetico. Si dirà: chi lo sa da che cosa deriva il suono e, di conseguenza, quando si deve usare la s e quando la z? La risposta è molto semplice: basta ricordare una regoletta. Quando nella corrispondente parola italiana c'è una g (o un suono/segno comunque diverso da s), in spezzino avremo la z, quando nella parola corrispondente italiana troviamo la s, avremo s anche in spezzino. Si trascrive con z anche la z sonora che ricorre nei termini italiani corrispondenti. Esempî: scapae, desfae, squasi, spaae, 'sto; sbagiae, sderenae, sgoae, deslengoae, smangolae, snaià, srotolae, svelenie; naso, caso, rèsa, sborie ma zenao, ziae, Spèza, zenocio, münze; posso, càossa, ciassa, ma s-ciopae, pensae, castèo; Mazin. s-c Ricorre nel nesso s sorda + c palatale. Esempî: mes-ciüa. t suono della t come in italiano. v suono della v come in italiano. Trascrizione dei suoni presenti nei dialetti limitrofi ed assenti nello spezzino ǝ mutola, vocale semimuta (come la e muta francese in devoir), suono tipico, tra l'altro, della Lunigiana e dell'Emilia Romagna. ö o velare tonica in dialetti di tipo genovese (Cinque Terre, Val di Vara, ma anche a Biassa, dove però presenta un grado d'apertura diverso (più aperto) rispetto al corrispondente fonema genovese). Il fonema spezzino corrispondente è è. Esempî: bö, növu. ö velare atona (quando compare nella parola una ö velare atona la sillaba tonica è comunque accentata). Esempî: röcià. u atona; u tonica chiusa nelle parole parossitone (o piane, cioè con accento tonico sulla penultima sillaba); u tonica chiusa nelle parole ossitone (o tronche, cioè con accento sull'ultima) terminanti in n. Si pronunzia come la u dell'italiano "lume". Esempî: purtà, mundu, bun. ù u tonica chiusa nelle parole proparossitone (o sdrucciole, cioè accentate sulla terzultima sillaba); Esempî: cùntemelo. u tonica chiusa nelle parole ossitone (o tronche, cioè accentate sull'ultima) terminanti in vocale (di rara occorrenza, essendovi al suo posto ü); u tonica chiusa in qualsiasi sede quando è presente nella parola una u atona (di rara occorrenza, essendovi al suo posto ü). chj suono tipico della c velare in Lunigiana (la c.d. schiacciata mediopalatale o esplosiva - nei testi in genere trascritta col grafema k̋) omologo di ghj. Esempî: chjamar ď suono cacuminale della d, tipico della Garfagnana e di parti della Lunigiana. g-/gi- suoni palatali dei pronomi, pronunciati assieme alla parola seguente, nelle aree dialettali di tipo geneovese o lunigiano. Esempî: ig-è, igi-han. ghj suono tipico della g velare in Lunigiana (la c.d. schiacciata mediopalatale o esplosiva - nei testi in genere trascritta col grafema g̋) omologo di khj. Esempî: ghjòmo j suono della fricativa palatale sonora, la cosiddetta j francese (genovese x), ricorrente nei dialetti di area genovese o lunigiana: Esempî: vuje. ľ suono cacuminale della l, tipico della Garfagnana e di parti della Lunigiana. n- suono velare della n, che ricorre anche in spezzino in tutti i casi di n preconsontantica, ma che non viene notato graficamente; lo si nota invece nei dialetti di tipo genovese, in cui il suono si ritrova anche in posizione intervocalica, per cui il fonema va necessariamento notato. Esempî: lan-a. Trascizione della s e della z (sorde e sonore) nei dialetti in cui compaiono entrambi gli esiti (es. Biassa, Arcola etc.): 1° metodo: seguendo il metodo adottato per lo spezzino la scelta dovrebbe essere: s s sonora ss s sorda z z sonora zz z sorda Siccome però il lettore tende a fare confusione, si può adottare il 2° metodo: utilizzare i segni diacritici per indicare la consonante sonora ṡ (o ṣ) s sonora s s sorda ż (o ẓ) z sonora z z sorda 2° metodo: utilizzare i segni diacritici per indicare la consonante sonora e quella sorda ś s sonora ṡ s sorda ź z sonora ż z sonora - (trattino) Nei dialetti di tipo genovesizzante o di tipo lunigiano indica anche la pronuncia proclitica degli articoli e dei pronomi palatali unita alla parola che segue (es. gi-han) ed inoltre indica la proncia velare della n (lan-a).

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